John Burn-Murdoch è un giornalista del prestigioso quotidiano economico finanziario britannico Financial Times. In un suo recente articolo, ha analizzato i dati dell’impegno dei paesi ricchi in materia di denatalità. In quarant’anni, dal 1980 al 2019, i paesi più avanzati del mondo hanno triplicato (al netto dell’inflazione, quindi come potere d’acquisto reale) le provvidenze per asili nido, assegni familiari, permessi da lavoro per padri e madri, premi per nascita figli, acquisti prima casa, misure per l’occupazione femminile, sussidi vari. Nello stesso lasso di tempo nei paesi ricchi, il numero medio di figli per donna è passato da 1,85 a 1,53, per non parlare dell’Italia attestata su 1,22. La proba Ungheria che delle politiche familiari ha fatto ideologia, è l’emblema dell’irrilevanza di tali politiche nella decisione di fare figli. In Cina, dopo decenni di politica del figlio unico, la decrescita demografica non si arresta nonostante il varo di misure economiche e fiscali a favore del secondo e terzo figlio. Murdoch afferma che “Il legame tra nascite e la spesa pubblica per politiche in favore della famiglia è trascurabile”. Insomma, il rapporto tra sviluppo delle politiche familiari-demografiche e tasso di natalità sembra essere inversamente proporzionale, le facilitazioni economico-fiscali non determinano la decisione di fare figli, semplicemente aiutano chi i figli li ha già e, per cultura, accoglie quelli che vengono. Le politiche familiari si trasformano, così, nel frutto delle rivendicazioni di una popolazione, tipo famiglie numerose, ridotta a riserva indiana e, per il politico, a riserva elettorale. Ci sono i ferrotranvieri, i metalmeccanici, così come ci sarebbero le famiglie e coppie che invocano i loro diritti. La conclusione di Burn-Murdoch è che il problema non è economico ma, pre-politico, cioè culturale. Sarà una coincidenza, ma l’inizio del declino della natalità in Italia ha una data ben precisa, 1971, l’hanno della legge sul divorzio e del tradimento dei cattolici democratici che, per evitare la rottura con i socialisti, determinarono la sconfitta nel referendum per l’abolizione della legge Fortuna-Baslini, come narra Gabrio Lombardi nel suo libro “Perché il referendum sul divorzio? 1974 e dopo, Ares, Milano”. I democristiani di allora, del referendum dicevano “se perdiamo, siamo perdenti, se vinciamo siamo perduti”, la storia non ha fretta, aspettò un ventennio e li rese, al contempo, perdenti e perduti. Quel tradimento fu “teologicamente” sorretto dalle posizioni di Giuseppe Lazzati e Carlo Carretto. Uno sforzo simile è quello che la CEI ha profuso, nell’ultimo decennio, varando le sue “vincenti” posizioni politiche, peraltro non richieste dal popolo cattolico che è pure un popolo di “cittadini” che vorrebbe sapere il perché debbano operare delle scelte invece che altre, e non essere sostituito nel compierle, come nel caso dell’autonomia differenziata e del presidenzialismo, con buona pace dell’Apostolicam Actuositatem. L’indirizzo politico dettato da Vescovi suona più o meno così: “poiché abbiamo perduto la battaglia culturale su divorzio e aborto, ripieghiamo sulla promozione di misure concrete per la famiglia e la vita. Salviamo il salvabile”. L’esito di questa posizione è perdente sul piano politico e culturale. Le misure politiche “concrete” a favore di famiglia e vita, spacciate per sano realismo, non intaccano minimamente il trend della natalità e dell’abortività. Sul piano culturale, l’esito di tale politica è che non si sa più che cosa pensino esattamente i cattolici oscillanti tra i medici “sicari” e un abbraccio fraterno ad Emma Bonino. Le migliori energie cattoliche per la famiglia e la vita, sono state convogliate sul binario morto dell’Impegno sulle cose concrete, trasformando tanti buoni cattolici in sindacalisti delle riserve indiane. Una Chiesa sempre solerte nella denuncia dell’ingiustizia sociale sembra arrancare nell’annuncio della giustizia celeste, con le sue esigenze e le sue misericordie le quali, non va dimenticato, non fanno mai a meno l’una dell’altra.
Paolo Piro
Immagine tratta da www.ilblogdellestelle.it/2007/12/riserve_indiane.html